donne violenza cgil 26 09 2017

LA VIOLENZA FEMMINICIDA

Alessandra, Silvana, Marzia, Valentina, Catena Debora, la lista potrebbe continuare a lungo, sono settanta le vittime dei femminicidi dall’inizio del 2022. La donna uccisa più giovane aveva quindici anni, la più anziana novantaquattro. Erano mogli, fidanzate, amanti, sex worker, la stragrande maggioranza, vittime di uccisioni in ambito familiare, quindi padri, zii, fratelli, e soprattutto partner o ex partner.

Almeno un caso con violenza o stupro prima dell’omicidio, almeno sei casi con denunce o segnalazioni per violenza o persecuzione nei mesi precedenti. Si tratta di uomini che avevano già precedenti penali connessi a violenze, persecuzione, stalking, abusi nei confronti di donne che frequentavano (mogli, colleghe, madri) in molti casi i figli minori erano presenti e hanno assistito all’omicidio, moltissimi minorenni sono rimasti orfani a seguito del femminicidio della madre.

Questi, per sommi capi, i dati nudi e crudi, il bollettino di guerra infinito e al momento inarrestabile, che ci consegna l’osservatorio di “Non una di meno”.

A ciascuno dei nomi del lungo elenco delle vittime della mattanza, andrebbe associato anche quello di un uomo, dell’assassino, ma forse sarebbe un esercizio inutile, perché, al di la del nome, il denominatore comune del killer sempre uno solo: il genere.

Una cosa balza subito all’occhio: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che le donne subiscono, si consumano nel silenzio, molto spesso tra le pareti domestiche, luoghi, per definizione, di condivisione, di amore, di complicità, di aiuto reciproco.

Quando un uomo, anziché interrogarsi sul fallimento della propria vita amorosa, quando anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, perseguita, colpisce, uccide la donna che lo ha abbandonato, mostra il proprio limite di genere, un limite invalicabile.

Rivendica un diritto di proprietà assoluta, di vita e di morte, sul proprio partner, non è mai una manifestazione dell’amore, ma, come ricordava Adriano Sofri in un articolo apparso su Repubblica, il 3 maggio 2012, la sua profanazione.

Non c’è femminicidio nel mondo animale. Il maschio dell’uomo è prigioniero della propria struttura mentale. Non sopporto di non essere più tutto per te, dunque ti uccido, o mia o di nessun altro, è questo vuoto che si determina, che lo porta a uccidere.

Una donna, per l’uomo, è la cifra del proprio limite, qualcosa di “altro” che non si può disciplinare, sottomettere o possedere integralmente, e, come sostiene il filosofo Lacan, mette a confronto “l’idiozia del fallo” con il godimento femminile, che appare al maschio senza misura, senza confini, senza il “ limite” della dimostrazione, molteplice, invisibile, una sessualità che non conosce padroni.

Ed è di fronte a quest’ universo, sconosciuto e misconosciuto, che scatta la violenza possessiva maschile, come tentativo di dominare un regno che non ha confini, un regno “altro”da lui se pur complementare.

Ricordando il mito dell’uomo archetipo, poi dimezzato dagli dei, Platone diceva che ogni uomo e per se stesso un simbolo, in altre parole unità divisa (Symballon in greco) metà di un intero, in cui traspare la parte mancante, sia essa maschile o femminile, simbolo di un’unità, che dal suo passato remoto lo richiama a una ricostituzione.

Per un uomo amare una donna è un’impresa ardua, è amare la sua alterità, completamente, questa è la chiave per intendere un’etica della relazione tra persona e persona, tra uomo e donna, ma anche tra uomo e pianeta.

Con tutta la loro problematicità, queste riflessioni ci interrogano, ci mettono a nudo, ci chiamano a riconoscersi, l’un l’altro, come soggetti, all’interno di un’etica del rispetto.

 

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